16/02/12

La diffidenza dopo le delusioni

Il presidente della Banca centrale europea, <b>Mario Draghi</b>, ha provato a scherzarci sopra. «La Grecia è un Paese unico. In tutti i sensi».
Ha giustificato la sua reticenza sulle modalità della partecipazione della Bce al salvataggio di Atene con il fatto che era in partenza per la riunione dell'Eurogruppo e solo dopo avrebbe potuto essere più preciso, ma ha lasciato aperta la porta a un modo per «ripartire i profitti» sui suoi acquisti di titoli greci. Si è dichiarato «fiducioso che tutti i pezzi andranno a posto».
Anche dopo l'accordo fra i partiti in Grecia per il nuovo (l'ennesimo) programma di austerità, i pezzi che devono andare a posto restano molti. E il puzzle è complicato. Il primo pezzo è l'accettazione del piano greco da parte dell'Europa e del Fondo monetario, oltre che della Bce. E già ieri sera si è visto quanto tiepide fossero le reazioni a Bruxelles. Non perché i numeri del programma non siano più o meno in ordine. Ma perché gli interlocutori della Grecia sono stati troppo volte scottati, negli ultimi due anni, dalle promesse non mantenute da Atene.
La parola che riecheggiava in tutti i commenti era "implementation", la messa in atto del programma. Quella dei piani precedenti è stata quasi inesistente. Draghi lo ha sottolineato ieri: nella crisi greca, e dell'eurozona, si parla tanto di soldi, dei pacchetti di aiuti, del contributo della Bce, dei "firewall", le barriere "antifuoco" contro il contagio. Ma quel che conta più di tutto, ha detto, sono le riforme messe in atto dai Paesi. Nel caso greco, si è visto poco.
Il secondo pezzo che deve andare a posto è l'intesa con i creditori privati che debbono accettare "volontariamente" perdite sui loro investimenti che da ottobre a oggi sono salite dal 21% al 50%, al 70%. Chi li rappresenta nel negoziato parla per meno di metà dei possessori di debito greco. E fra gli altri ci sono hedge fund decisi a dare battaglia. L'adesione volontaria che, affinché il piano funzioni, dovrebbe essere totalitaria, rischia in realtà di essere molto bassa. I creditori privati saranno allora forzati, in un modo o nell'altro, con l'introduzione di clausole di azione collettiva retroattive, a partecipare. I bond in scadenza il 20 marzo (14,5 miliardi di euro), la vera spada di Damocle su tutta la vicenda, verrebbero inclusi nella ristrutturazione. Se si tratterà di un default non "disordinato", anatema per i mercati, resta tutto da vedere.
Il terzo pezzo da aggiungere può essere allora il contributo della Bce, ma non è certo su questo che si decide il destino di Atene, nonostante sia finito negli ultimi giorni sotto i riflettori.

DALLA PRIMA Tutti questi elementi si possono ricomporre. E probabilmente lo saranno, a partire da oggi. Alla fine, però, si torna al punto di partenza. Cosa succederà se i piani greci non verranno rispettati? E, con le elezioni alle porte, ci sono tutti i presupposti perché non lo siano, di fronte a una situazione economica e sociale disastrosa, e suscettibile di restare in questo stato per anni. Magari non subito, ma da qui a qualche mese, forse qualche trimestre, il piano può deragliare.
A quel punto, è meglio che l'Europa si faccia trovare più preparata di quanto non sia stata finora. Avendo messo in sicurezza il proprio sistema finanziario e gli altri Paesi contagiabili. Questo per adesso, nonostante gli sforzi della Bce sul fronte bancario e di alcuni Paesi, Italia in testa, sul fronte fiscale, è un lavoro incompiuto. Non è il "caso unico" della Grecia il problema vero dell'eurozona.

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